Nino Piazza

E’ una pittura , quella di Nino Piazza, che non si confessa intera al primo incontro.

Appare, alla prima, costituita da un sapiente, quasi distaccato disporsi, l’uno appresso all’altro, degli atti da sempre necessari al suo esistere. Colori, luci, materia si compongono sulla superficie, deposti da gesti lenti e saggi, studiosamente costruttivi; e sul piano, mentre le carte umide di colore aderiscono al supporto accidentato, s’allargano spazi, si stratificano spessori, s’aprono illusive voragini di vuoto. E pensi allora che una grammatica conosciuta, dal lunghissimo e illustre asse paradigmatico, che affonda le sue radici in tanta pittura che usiamo nominare informale, regoli e giustifichi queste immagini.

Poi, uno sguardo più attento ti svela l’opposto: che un’ansia di una figura – smarrita, tradita – è costantemente annidata nel cuore più fondo dell’opera di Piazza.

Ne costituisce come il basso continuo d’una melodia data da pochi strumenti, cantata da poche voci; si dà al mondo di una strenua costanza; o forse più: di un’ossessione; io credo, la sua vera, incancellabile ossessione. Anche in questo Piazza, anagraficamente giovane, è pittore antico: forse fuori dal tempo; certo consapevolmente inattuale. Questo bilico cercato, sempre, fra presenza e assenza; fra un’intensità sofferta, quasi malata del figurare e la sua rarefazione nel sogno; fra simbolo ed enigma; fra parola e fiato; fra grido e sussurro; questo bilico che sorregge a ogni passo l’epifania dell’immagine, questo precario equilibrio cui tanto è destinato ( tempo, cura, laboriosa attualità dell’opera ), che è infine offerto a chi incontri questa pittura come suo crocevia fondamentale: tutto ciò, quanto è lontano dall’oggi: dai suoi ritmi accelerati, dalle sue asseverate certezze, dalle sue apparentemente incontrovertibili dimostrazione. Quanto è, rispetto a questa banalissima attualità, incommensurabilmente lontano; e quanto è raro.

Non ne conosco la vita, eppure l’immagino: appartata, silenziosa, testardamente reclina sulla pittura, alla quale molto è ogni giorno offerto, e molto viene richiesto. E m’immagino anche  che Parma, sua città natale, debba somigliargli: in quella sua parte, almeno, che è rimasta arroccata in sé, e aristocraticamente tetragona; pregna di memoria, e armata contro il frastuono che l’assedia: come soggiogata dalle pietre aguzze del Battistero, e gemella a quelle forme, che sono le più aspre e insieme le più sognate fra quelle che fanno le fabbriche maggiori dell’architettura romanica di Padania.

Per Piazza, penso, che è nato li, che ha guardato così a lungo quel suo Battistero, poteva darsi davvero, allora, una pittura senza il sogno di una “ figura “ ? Senza una memoria d’essa, vischiosa; senza il battito d’ali del suo oscuro fantasma?

Dialoghi di rade parole, e architetture frananti, e crinali di monti senza fughe di spazio oltre l’orizzonte; e lune cieche, e fiumi che scorrono limacciosi nella notte, e scale immense appoggiate al  senza stelle; e grembi oscuri, misteriosi, pregni: questo ed altro, allora, scopri nella sua pittura.  Trasfigurati, certo; còlti e confessati appena un attimo prima del loro inabissarsi in un magma indifferenziato; rubati a una sofferta memoria. Ed è allora davvero un “ immaginario “ sacrale ( ha scritto così di recente, e assai bene, Paola Guatelli ), in un luogo di una più o meno mutevole e seducente occasione visiva, a guidarlo, ad accamparsi al centro della sua pittura, ad occuparla per sempre. Un immaginario costruito da figure archetipe, irrinunciabili ed eterne. Con l’ansia di un tutto che ci sarà possibile allontanare, dimenticare, rimuovere.

“ Abitare l’infinita dimora del mistero “, Piazza ha chiamato una volta una sua mostra.

Confessando forse in quel titolo molto di sé, della sua pittura, e del suo possibile testimoniare nel mondo. La volontà di un luogo ove restare, e donde capire; e insieme il baratro sconosciuto da cui si percepisce assediato. A far nascere le “ figure “ di Piazza è infatti sempre la percezione di questa dismisura, di una distanza incolmabile fra sé e l’universo che ci circonda. Per questo, le sue figure nascono in un dolore: esattamente  come le corde dell’ultimo Mafai, allora, sembrò “ astratto “ ai più ( che  gli inveirono contro, per questo ), e non lo era: proprio come adesso, astratta, non è questa pittura: che porta invece sulle spalle il peso del buio con cui le forme sdutte, appena scritte sulla superficie  da un barbaglio di luce fioca e filante, tramate di una densa, ottusa malinconia, ingaggiano una  lotta impari, eppure ogni volta strenuamente rinnovata.

 

di Fabrizio D’Amico

da Zefiro, catalogo della mostra, Centro culturale di Langhirano, Parma, Aprile 2000.